Rubrica mensile in dialèt arşân – Settembre 2023

Il Comune di Albinea e il gruppo di cultori e studiosi Léngua Mèdra Rèş e la nôstra léngua arşâna propongono mensilmente un approfondimento sulla nostra straordinaria lingua madre, il dialetto reggiano!

Non perdetevi questi appuntamenti, alla scoperta del significato di espressioni, modi di dire, proverbi e molto altro!

L’appuntamento mensile di SETTEMBRE con la nostra rubrica dialettale è dedicato a DE ANDRÉ, ovviamente in dialetto.

Il nostro spazio mensile dedicato al dialetto riprende idealmente lo spettacolo presentato alla Fiera di Albinea il 4 settembre dedicato a Fabrizio De André.

Fabrizio De André, oltre ad averci lasciato un fantastico album in dialetto genovese (Creuza de ma) è ricorso spesso alla traduzione di testi di autori stranieri e in una intervista disse che “quando non si ha qualcosa di interessante da dire è meglio tradurre un testo già esistente”. Questa idea semplice sostiene anche le prove di ri-traduzione in dialetto dei testi di alcune canzoni di De André, curate dal nostro Luciano Cucchi di Léngua Mèdra.

In realtà, Fabrizio De André non si limitava a tradurre un testo, ma lo reinterpretava con la sua sensibilità, aggiungendo anche versi che non erano presenti nel lavoro originale. Ad esempio, Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) è una libera traduzione di Fabrizio De André della poesia Frank Drummer, scritta da Lee Masters nella famosa Antologia di Spoon River. L’album di De André è Non al denaro non all’amore né al cielo, del 1971.

La traduzione di Fernanda Pivano del testo originale, recita:

Da una cella a questo luogo oscuro –
la morte a venticinque anni!
La mia lingua non poteva esprimere ciò che mi si agitava dentro,
e il villaggio mi prese per scemo.
Eppure all’inizio c’era una visione chiara,
un proposito alto e pressante, nella mia anima.
che mi spinse a cercar d’imparare a memoria

I’Enciclopedia Britannica!

Fabrizio de André mantiene e reinterpreta con parole nuove alcuni passi della poesia originale, come quello in cui il testo dice: “La lingua non poteva esprimere ciò che mi si agitava dentro, e il villaggio mi prese per scemo”. È da questo passo che De André ricava il titolo della canzone, inserendovi il termine “matto” per sviluppare il tema dello stigma della malattia psichiatrica. De André si schierò in questo modo con il personaggio debole della storia, come sempre fece nelle sue canzoni.

Scrive lo scrittore e saggista Walter Pistarini, studioso dei testi delle canzoni di De André:

“Della versione originale De André conserva anche il passaggio in cui il matto, per farsi ascoltare, si mette a studiare a memoria un’enciclopedia: per Lee Masters, la famosa Enciclopedia Britannica, per Fabrizio l’altrettanto famosa italianissima Treccani. A voler leggere fra le righe, sembra quasi che il matto di De André venga internato in manicomio quando comincia a sapere un po’ troppo: è già arrivato alla lettera “m”, e forse il paese inizia a preoccuparsi.

Le ultime due strofe della canzone sono aggiunte di libera invenzione. Lee Masters parla di una visione iniziale chiara che spinge Drummer a cercare d’imparare a memoria l’enciclopedia, De André parla di una luce sopraggiunta nei pensieri del matto ormai sepolto che ora cambia le regole e inventa parole nuove, pur rimpiangendo l’altra luce, quella del sole. Sembra che ora gli sia tutto chiaro, nonostante – ultimo tocco, anzi stoccata tipica deandreiana – il popolino ancora bisbigli: “Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”. Un mormorio del popolino che Luciano Cucchi ha conosciuto fin dall’infanzia per le storie dei matti che si raccontavano nel “nostro” quartiere di Villa Ospizio, dove sorgeva il manicomio “San Lazzaro”.

E forse questi ricordi gli hanno suggerito questa traduzione in dialetto:

UN MÂT

(dedrē da ógni sēmo a gh ē un vilâg)
Té prōva ad avèir un mònd in dal cōr
E cavêrgla mia a dîrel cun al parôli
E la lûş dal dé la s’divéd la piâsa
Tra un vilâg ch’al réd ed té, al sēmo, ch’al pâsa.
E gnânca la nôt la t lâsa da té:
Ch j êter insògnen se stès, lōr te t l insògn té.
E sé, ânca té t andrés a serchêr
Al parôli sicûri per fêret scultêr
Pr’ incantêr mèş ōra, l ē asê un léber de stôria
Mé a j ò serchê d imparêr la Treccani a memôria
E dôp “maiale”, “Majakovskij”, “malfatto”,
j ân cuntinuê ch j êter fîn a lēşrom “matto”.
E sèinsa savèir la véta csa l’ē
In un manicômi mé l ò dêda indrē.
Ché in dla culèina e dôrom mêl luntēra
Epór gh ē dla lûs in di mé pinsêr
Ché in dal berlóm adès invèint dal parôli
Mó am mânca ’na lûs: la lûş dal sōl.
I mé ôs e regâlen ancòra a la véta
E gh regâlen ancòra l’êrba e ’na margaréta
Mó la véta l’ē armêşa in dal vōş in surdèina
Ed chi à pêrs al sēmo e a j piânş in culèina
Ed chi ancòra al fà scultèin cun la stèsa ironía:
“generōşa la môrt ch al l à s’cianchê a la pazzia”.

Rimandiamo al sito di Lengua Medra per ascoltare il brano recitato da Luciano Cucchi, per leggere il testo in italiano della canzone Un Matto e per altre due traduzioni di canzoni di Fabrizio De André prodotte da Luciano Cucchi.

https://lenguamedra.it/fabrizio-de-andre/