Il Comune di Albinea e il gruppo di cultori e studiosi Léngua Mèdra Rèş e la nôstra léngua arşâna propongono mensilmente un approfondimento sulla nostra straordinaria lingua madre, il dialetto reggiano!
Non perdetevi questi appuntamenti, alla scoperta del significato di espressioni, modi di dire, proverbi e molto altro!
L’appuntamento mensile di agosto con la nostra rubrica dialettale si compone di due contenuti:
👉 Storî dal Tabâr. Atèinti al lòuv
Se si parla in italiano, dire Attenti al lupo ha un significato molto preciso, o al massimo ci si può chiedere se è un avvertimento che ci viene dato prima di una escursione in montagna o se stiamo ascoltando la famosa canzone di Lucio Dalla.
In dialèt la n ē mia acsé. Al lòuv l ē sé la bèstia dla fôla ed Cappuccetto Rosso, mó ânca quèl d êter.
Si chiama così, ad esempio, un attrezzo che anticamente serviva per ripescare un secchio caduto in un pozzo. Se non si voleva dire per sempre bòuna nôt al s’cîn, che era pur sempre un recipiente importante, bisognava fare qualcosa per recuperarlo e i nostri nonni avevano inventato al lòuv (in italiano ràffio). Era un attrezzo costituito da diversi uncini variamente orientati, in modo che almeno uno riuscisse ad agganciare il manico del secchio anche nelle posizioni più difficili in cui poteva trovarsi in fondo al pozzo. Al lòuv poteva essere fissato ad una catena o montato sōvra ’na pêrdga ed lègn. Nel mio ricordo d’infanzia la mèscla d fèr per bèver l’âqua da ‘l s-cîn portava alla bocca la freschezza di un’acqua dalla mai più eguagliata fragranza! La gioia poi nell’assaporare ’na cucòmbra tgnûda lé in frèsch, resta indescrivibile.
Un terzo significato della parola lòuv chiama in causa una pianta erbacea: così sono infatti chiamati i capolini uncinati della bardana (o lappa, lappola). Nella nostra montagna venivano chiamati tacadur per la loro capacità di impigliarsi al pelo degli animali e ai vestiti dell’uomo. Un tempo i bambini si divertivano a lanciarseli addosso nelle battaglie.
In conclusione, sono stati certamente i dèint ¬bişlòngh e pighê indrê dla bèstia lòuv ad aver suggerito ai nostri avi di dare lo stesso nome dell’animale anche al ràffio e al capolino della bardana. L’osservazione della natura era molto importante per dare un nome alle cose.
🧐 Tante poi sono le definizioni presenti nel nostro dialetto lòuv:
aj dal lòuv: cipollone bianco (pianta erbacea Ornithogalum umbellatum)
mêl dal lòuv: lupus eritematoso (malattia)
pâs dal lòuv: lo spazio tra le ciglia
fêr al lòuv: il vento che soffia nel camino:
fêr al baj dal lòuv: ululare
serchêr sinch pē al lòuv: cavillare su qualcosa
fêr la pêrdga dal lòuv: fare la verticale, appoggiandosi con le mani in terra.
Questo curioso modo di dire risale ad una tradizione antica. Quando i lupi erano molto più numerosi di oggi e costituivano un pericolo per l’allevamento, la loro caccia era purtroppo non solo consentita senza limitazioni, ma addirittura incoraggiata con taglie e premi che venivano dati a chi portava lupi catturati e uccisi. I cacciatori di lupi prendevano anche offerte dalla popolazione come riconoscimento per il servizio reso e quando un lupo veniva ucciso veniva attaccato a un palo a testa in giù. Con il lupo portato in questo modo i cacciatori giravano per i paesi a riscuotere le ricompense.
E per finire ricordiamoci che
Al lòuv al muda al pèil mó i vési mai.
👉 I nostri lettori ci perdoneranno se parliamo di due modi dialettali utilizzati per dire che una persona puzza tanto, ma proprio tanto.
Il primo: pusêr cm’un èndeş
è un modo di dire abbastanza noto, ma da pochi conosciuto per le sue origini, fra i modi di dire reggiani, poiché oggi è difficile imbattersi in un uovo di gallina riconosciuto come èndeş.
Quando le uova erano deposte da galline libere di razzolare attorno alle case rurali era importante distinguere se l’uovo era galê (fecondato) o no (ōv cêr). Per saperlo, si guardava l’uovo in trasparenza e al brêvi reşdōri sapevano distinguere i due casi. Se l’uovo era fecondato lo si faceva covare alla gallina. Diversamente l’uovo poteva essere bevuto fresco o usato per cucinare. Una di queste uova non fecondate veniva messa nella cesta del pollaio per indicare alle galline dove dovevano deporre le uova ed evitare così che le disperdessero in cento posti attorno a casa. Questo uovo messo nella cesta funzionava quindi da “indice” o “endice” (èndeş) e lo si lasciava lì per molto tempo, tanto che a un certo punto marciva. Se disgraziatamente veniva rotto ecco che la puzza d’èndeş si manifestava tutt’intorno con tutta la sua potenza maleodorante.
Meno nota è la seconda espressione: Al pósa cmè un calghêr
Con questo nome calghêr, si indicava il conciatore di pelli, che a Reggio veniva anche definito con un altro termine: cunsèin.
Il conciatore aveva continuamente a che fare con le carcasse puzzolenti degli animali da cui si ricavavano le pelli. L’aria era resa ancor più pesante per l’odore degli scarti di lavorazione e per i prodotti che venivano utilizzati per la concia. La puzza prodotta da queste concerie era così intensa che gli scorzeri, come venivano chiamati i conciatori veneziani , nel 1271vennero relegati a praticare la loro arte sull’isola della Giudecca.
A Reggio invece le concerie erano raggruppate nella Strada di Gallegana, oggi chiamata Via Galgana,(parallela a via San Carlo, che collega via San Filippo con via Toschi) Accanto a questa strada scorreva un canale che alimentava già nel 1445 un molendinum gallae, un mulino destinato a macinare le galle arboree e altri materiali utilizzati nella concia delle pelli. La galla (in dialetto bacócla, o gargâla) è una escrescenza formata dalle piante in risposta all’attacco di un parassita: insetti, funghi, batteri e virus e possono presentarsi in molte forme diverse.
Le bacócla, o gargâla hanno la proprietà di essere anche ricche in tannini, sostanze utili in conceria per il loro elevato potere astringente. E’ possibile, ma non cosa certa, che il nome della strada, oggi via Galgana, provenga proprio dal termine “galla”.
Per i poveri calghêr reggiani la produzione e l’esposizione alla puzza non finiva qui. La Strada di Gallegana nel secolo XIV aveva un vicoletto trasversale che la collegava con via Tavolata, adibito a deposito di letame; non meraviglia dunque che il detto pusêr cme un calghêr sia entrato per questo nei modi di dire dei reggiani.
(Può valere però quello che scrisse Fabrizio de André (“dai diamanti non nasce niente , dal letame nascono i fior”): in quella puzzolente strada della nostra città nacque il 10 settembre 1447 Paolo da San Leocadio, il pittore che fece importanti affreschi nella Cattedrale di Valencia , dove morì nel 1520 (circa), che rappresentano scene bibliche, fra le quali la Vita della Vergine che è ritenuta la prima opera del Rinascimento in Spagna).
Al prossimo mese!
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